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ATTRAVERSO L’ ITALIA –
BOLOGNA

di
Sergio Zazzera
Mi sono fatto l’idea (e lo dico per esperienza personale)
che lontano dalla sua città il bolognese deve sentirsi come un
pesce fuor d’acqua: per quanta spocchia, infatti, egli è capace
di esprimere quando si trova altrove, altrettanta cordialità riesce
a manifestare nella sua patria, “dotta” e “grassa”, ma
soprattutto affascinante.
Mi ci accosto, la prima volta, nella prima metà degli anni
settanta, insieme con un collega: San Petronio mi colpisce,
immediatamente, per la sua ampiezza e, soprattutto, per
l’originalità delle opere d’arte che custodisce: in questo
momento penso, più di ogni altra cosa, al gruppo della Deposizione,
modellato da Vincenzo Onofri e collocato in fondo alla navata
destra, tanto diverso per stile da quello di Guido Mazzoni, che è
nella chiesa napoletana di Monteoliveto, eppure degno di competere
con esso.
Dopo San Petronio, il complesso di Santo Stefano, la cui
ubicazione, un tantino sottoposta all’odierno livello stradale, dà
un’idea della “crescita” della città nel tempo, mentre la sua
composizione vede le chiese della Trinità, del Sepolcro e dei Santi
Vitale e Agricola, che affiancano quella intitolata al Protomartire,
disposte tutte intorno al “Cortile di Pilato”, al centro del
quale la leggenda popolare vuole che la vasca della fontanella sia
costituita dal catino nel quale il proconsole si lavò le mani,
secondo la narrazione evangelica.
Quindi, in vista della Torre degli Asinelli e della Garisenda,
la Metropolitana, che qui non è un trenino urbano, bensì la sede
dell’arcivescovo metropolita, e poi le due chiese, di San Domenico
– che custodisce le spoglie del santo nel sepolcro realizzato da
Nicolò dell’Arca, mentre sul piazzale antistante è la tomba del
giurista Rolandino de’ Passeggeri – e di San Francesco,
preceduta, a sua volta, dalle tombe dei Glossatori, anch’essi
maestri di diritto dell’età medioevale.
All’ora di pranzo, un ristorante in fondo a una traversa
cieca di piazza Maggiore ci accoglie con la rinomata cucina
tradizionale: pasticcio di lasagne, cotoletta alla bolognese e,
infine, il “dolce di Carnevale”, in uso nel Medioevo e davvero
squisito, ma che, se fosse stato sganciato su Hiroshima, avrebbe
prodotto danni maggiori di quelli causati dall’atomica.
A Bologna torno, un paio di volte, poco prima della fine del
millennio scorso, e visito nuovamente, con piacere, tutti i luoghi
di quarant’anni prima. Sono colpito positivamente dalla cortesia
del sacrista di San Petronio, il quale, in mancanza di cartoline, mi
autorizza a fotografare il gruppo della Deposizione;
dopo di che, mi suggerisce di andare a vedere l’altro, scolpito da
Nicolò dell’Arca, che è nella vicina chiesa di Santa Maria della
Vita: accolgo il suggerimento e, dopo avere visto il gruppo, lo
apprezzo ancor più di quello dell’Onofri, ma sono costretto a
“rubarne” La foto, a causa di un assurdo divieto.
Poiché ho la sgradita sorpresa dell’avvenuta cessione del
ristorante, che più sopra ho ricordato, a persone senza scrupoli,
che già dalla lista esposta all’esterno lasciano intendere il
loro scarso rispetto per la pur solida tradizione locale, individuo
nella vicina via Montegrappa un altro locale – “Nello” –,
che sembra promettere bene e, quel che più conta, mantiene la
promessa. Infine, poiché il tempo a disposizione me lo consente,
faccio una passeggiata per via Massimo d’Azeglio, dove scopro
l’esistenza di un negozio di cravatte artigianali, assolutamente
pregevoli, che invogliano all’acquisto; e mi lascio invogliare. Il
negozio di fronte, sotto l’antica insegna della “Camiceria
Ildebrando Vincenzi”, espone in vetrina articoli casalinghi e
oggettistica per regalo: in un primo momento, la situazione mi
sembra fuorviante, poi penso che l’insieme dev’essere stato
sottoposto a vincolo.
Mi rimane un po’ di tempo per uno sguardo al cortile del
Palazzo di Re Enzo e al Nettuno del Giambologna (che si chiamava
Jean de Boulogne, era fiammingo e non aveva nulla a che vedere con
la città); infine, l’ora della partenza si avvicina e non mi
resta che salire su un autobus e raggiungere la stazione.
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