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Napoliontheroad
per
la rubrica:
“Storie
e racconti dalla Costiera Amalfitana”
Spigolature
atranesi
di
Antonio Porpora Anastasio
“Dai
varchi nelle arcate del viadotto che chiude la cittadina come una
muraglia, il vento si insinuava prepotente trascinando con sé il
grido del mare e il profumo acre della salsedine”. Questa
suggestiva descrizione del confine esterno dell’abitato di Atrani
è fra le pagine del “thriller amalfitano” I
fuochi di Atrani, scritto a quattro mani da Fiorella Franchini e
Mario Pagano nel 2006.
In
effetti, a guardare con occhio disinteressato la celebrata “SS 163
Amalfitana” – si pensi alla successiva rampa rotabile di accesso
al centro del paese, all’ingresso dell’Arsenale di Amalfi, alla
lunga rampa orientale di Maiori (fino a pochi decenni or sono), al
fiordo di Furore, ai vistosi sbancamenti, alle discariche
“naturali” ecc. – non si può ignorare di trovarsi dinanzi a
una serie di oltraggi paesaggistici irreversibili, seppure
indiscutibilmente utili in rapporto alle “magnifiche
sorti e progressive”. Interventi che rappresentano
addirittura un esempio di rispetto ambientale e di eleganza
stilistica, se confrontati con ciò che di incredibile l’uomo
costiero, con e senza il conforto delle istituzioni preposte, è
stato capace di concepire e realizzare negli anni a seguire.
Come
annotato nel “thriller amalfitano”, fino a pochissimi anni fa
Atrani era un luogo di pace: “Un piccolo presepe simile a Positano
ma meno colorato, meno allegro, che non mi costringeva a essere per
forza felice, e quando pioveva mi piaceva lo stesso. (…) Le estati
di Atrani, meno gaie, ma anche infinitamente meno affollate e
rumorose di quelle positanesi e amalfitane…”. Il carattere degli
abitanti rispecchiava i tratti del paesaggio, stretto e ombroso,
qualità che, per Matteo Camera, sarebbero all’origine del nome
del paese. Così lo descrive nel 1836: “Questo
paese confinato fra due monti elevati presenta dal mare un colpo
d’occhio per quanto monotono, altrettanto pittoresco a cagione
delle sue case bianche l’una sopra l’altra accavallate…
Il rivoletto Dragone offre agli abitanti la salute, i comodi e la
freschezza. Le strade interne sono strettissime, incomode e sudice,
e in talune appena una persona può passare liberamente; ad onta di
ciò l’aria non è cattiva”.
Più
avanti l’illustre storico riesce anche a datare l’origine della
particolare pronuncia dialettale degli atranesi, riferendola alla
vendetta politica di re Manfredi di Sicilia che, verso la metà del
1200, “spedì in Atrani un orda di 1000 Saraceni a prendervi
posto. Dio sa quante ingiurie e vessazioni ebbero da ingozzare gli
Atranesi in mezzo a sì esecrata gente! I sacri chiostri delle
vergini non furono punto rispettati dal libertinaggio saracenico…
Per quanto è incerto il tempo che questi barbari vi abbiano
stazionato, altrettanto ci rimane ad osservare d’averne questi
abitanti in certo modo riportato in retaggio un dialetto proprio e
particolare, la cui pronunzia e suono disgusta mirabilmente le
orecchie”.
Alla
liberazione dai Saraceni sarebbe collegata la costruzione della Collegiata
di Santa Maria Maddalena Penitente, principale tempio cristiano del
paese, la cui festa patronale è, nel “thriller amalfitano”, la
“copertura” per l’omicidio da cui prende le mosse la
narrazione. Una rara descrizione di questa festa è fra le pagine
autobiografiche del musicista Antonio Tirabassi, il quale racconta
con sottile ironia il programma musicale della banda, visto da
dietro le quinte, e i festeggiamenti del 22 luglio, quando “si
porta in processione la statua di S. Maria Maddalena Penitente. Con
solennità, i parrocchiani essendo fanatici, Santa e corteo fanno
sosta sul grande ponte, solo luogo d’un certo spazio nella valle
esigua. E i fedeli s’avvicinano al maestro di cerimonie per
rimetter le petizioni alla Santa. Questa letteratura comprende
generalmente la supplica della nubile mordace in cerca di marito, o
dello sconsolato che scongiura la crudele. Per esser certi
dell’intercessione invocata, le missive sono accompagnate da
qualche biglietto di banca… – Detto gesto, – mi disse il
parroco, – può scandalizzare solo il profano! Maestro, –
riprese il brav’uomo, – si intende così cominciare nuova vita
dopo la calamità redentrice. – Vita nuova nella
spoglia, Reverendo, – soggiunsi”.
Non
c’è scritto su Atrani che fra le prime parole non ne associ il
paesaggio alla struttura di un presepe, e la stessa Atrani avrebbe
caratterizzato alcuni presepi famosi, fra cui quello in cartapesta
della chiesa
della Madonna del Carmine i cui personaggi
sarebbero fedeli riproduzioni di uomini e donne atranesi del XVIII
secolo, realizzati e collocati secondo lo stato sociale dei
committenti, le loro possibilità economiche e il gradimento
suscitato nei sentimenti del loro autore.
Emblematico
il caso dello zampognaro detto ’on
Filippetto che, stando ai testimoni dell’epoca, sarebbe il borioso
e altezzoso notaio Filippo
Gambardella. Questo influente personaggio è ancora oggi
rappresentato dall’austera palazzina gentilizia in via Santa Maria
del Bando, dimora prestigiosa che in epoca borbonica godeva di
extraterritorialità. Fra i suoi discendenti sono ancor vive nella
memoria dei meno giovani le sorelle Puglia, signorine assai
per bene, timorate e pudiche. La loro vita era scandita da ritmi
precisi: la ripartizione degli affari domestici, le celebrazioni
religiose e le attività lavorative della primogenita, Marianna
(insegnante elementare, poi Direttrice Didattica), e
dell’ultimogenita, Gemma (insegnante di pianoforte). Le loro
frequentazioni erano discrete e ben selezionate, per cui ormai quasi
nessuno può dirne molto.
All’approssimarsi
del Natale era d’obbligo la visita di cortesia per lo scambio
degli auguri e di doni dolciari. Questa era l’unica occasione in
cui si mostravano insieme in casa, le due citate più le
“casalinghe” Maria Giuseppina ed Elena. La primogenita sedeva su
una bella poltrona di velluto rosso e le altre tre, in piedi,
facevano da cornice intorno all’alta spalliera. Seguivano le frasi
di rito e i racconti faceti, sempre gli stessi, della Direttrice,
continuamente incitata, interrotta e corretta dalle sorelle. Il
primo era la storia di un frate dalla barba lunghissima che perdette
il sonno allorquando un ragazzo gli chiese come la sistemasse
durante la notte, se sopra o sotto le coperte. Il secondo rievocava
il giorno della premiazione di un alunno particolarmente meritevole,
quando al momento dell’augurio “Ad
maiora!” la Direttrice si sentì rispondere dal padre del
fanciullo: – Mi perdoni, Direttrice, ma non siamo di Maiori,
veniamo da Minori…
18
aprile 2016
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