Gli
Svevi a Napoli

di
Antonio La Gala
Fino
all’ascesa dello svevo Federico I Hoenstaufen,
il Barbarossa, al trono di
Imperatore del germanico Sacro Romano Impero, Napoli e il Sud
d’Italia non avevano avuto a che fare con l’Impero, il quale
comprendeva anche il cosiddetto Regno d’Italia, cioè le regioni
del Centro Nord della penisola.
Con
Barbarossa le cose cambiarono.
Questi
cominciò a mirare all’acquisizione anche del mezzogiorno
d’Italia, provocando la reazione del papa che temeva di rimanere
schiacciato dall’Impero, padrone del Nord e del Sud. Barbarossa,
vistosi ostacolato dal Papa anche militarmente, cambiò la strategia
del suo tentativo di impossessarsi della penisola, scegliendo la più
comoda via di un matrimonio politico: fece sposare suo figlio Enrico
VI a Costanza d’Altavilla, ultima discendente dei Normanni
regnanti sul Regno di Sicilia, la quale non poteva salire sul trono
perché la legge dinastica normanna non prevedeva che regnasse una
donna.
La
successione nel 1189 dell’ultimo re normanno, Guglielmo II, aprì
una crisi perché al subentrante Enrico VI, in qualità di marito di
Costanza, i Normanni opposero Tancredi D’Altavilla conte di Lecce,
figlio di un figlio illegittimo di Ruggiero II e poi, morto
Tancredi, il suo erede fanciullo Guglielmo III. La guerra fra i
pretendenti fu vinta da Enrico e portò alla fine del dominio
normanno nell’Italia meridionale.
Durante
questa guerra la città di Napoli dapprima fu l’ultimo baluardo
dei Normanni e contro le rivendicazioni di Enrico VI di Svevia
appoggiò fedelmente Tancredi, il quale ricompensò la città
concedendole dei privilegi. Morto Tancredi, mentre Enrico riprendeva
l’offensiva contro Napoli, il prevalere in città del partito
filosvevo, fece desistere i napoletani dal continuare la lotta e
Napoli si dette a Enrico VI.
Il
ripensamento dei partenopei però non impedì a Enrico VI, quando
nel 1197, dopo aver assediato Napoli due volte, ebbe ragione
della città, di punirla con la distruzione di quelle mura che erano
il suo orgoglio e che, fin dalla fondazione della Neapolis greca,
nessuno era riuscito a violare.
Il
nuovo padrone svevo prese possesso di una città che dopo il dominio
normanno si presentava ricca e popolosa e il cui porto era divenuto,
con la decadenza di Amalfi, sbocco commerciale di tutta
la Campania.
Ad
Enrico VI, morto nel 1197, subentrò, ancora bambino, Federico II,
figlio di Enrico e di Costanza. Rimasto orfano anche della madre
(1198), Federico crebbe sotto la severa tutela di Papa Innocenzo III
e maturò una formazione spirituale più italiana che germanica,
fortemente influenzata dal fiorire nella sua prediletta Sicilia di
una cultura che si giovava della convivenza armoniosa di elementi
normanni, latini, greci, arabi ed ebrei.
Federico
II divenne imperatore con il beneplacito dei papi perché aveva
promesso loro di non unificare il Regno di Sicilia del Sud con
quello d’Italia del Nord, e aveva assicurato di organizzare una
crociata, promesse su cui poi si mosse con incoerenze e riluttanze.
Divenuto
imperatore, ricalcò le orme dei Normanni nel tenere a bada
l’ingerenza del papato. Tenne a bada anche il potere dei feudatari
e le tendenze autonomistiche delle città, mirando al mantenimento
di uno Stato omogeneo ed unitario, burocratico ed accentratore, in
cui amalgamare le diversità etniche, culturali e linguistiche che
nei secoli precedenti avevano creato il regno cosmopolita normanno
che aveva ereditato.
L’opera
a favore della cultura di Federico II è uno dei suoi lasciti
positivi più apprezzati. Colto, brillante (parlava sei lingue), si
contornò di artisti, scienziati, letterati, filosofi di varie
culture.
Testimonianze
della sua opera sono la fondazione delle Università di Padova, di
Napoli, e della scuola medica salernitana.
Federico
II, pur mantenendo la capitale del regno a Palermo, entra parecchio
nella storia della città di Napoli.
Il
rapporto non cominciò bene. Appena Federico s’insediò
i napoletani si sottraevano fieramente al controllo delle
milizie tedesche del nuovo re, responsabili di angherie e saccheggi.
Il malcontento verso le soldataglie sfociò una decina d’anni dopo
in un assalto che i napoletani, guidati da Goffredo di Montefusco,
portarono alla loro sede di Cuma, distruggendola. Federico prese
confidenza con Napoli nel 1220 e 1222, restandone colpito
positivamente, e ordinò importanti lavori: intuendone il valore
strategico militare ingrandì
Castel Capuano e la
rocca di Castel dell’Ovo e fece ripristinare le mura di cinta
della città. Valutando la straordinaria posizione geografica della
città come epicentro dei traffici fra
la Sicilia
e l’interno continentale del regno, nonché con i possedimenti
imperiali europei, dette maggiore impulso ai traffici marittimi;
ricostruì le mura abbattute dal padre e fondò l’Università.
Federico
trasformò Napoli da vecchia capitale di un piccolo ducato in città
regia, facendo emergere antica e nuova nobiltà, a cui si aprivano
prospettive di carriera e ricchezza. Favorì il ceto medio agiato,
giudici, notai e avvocati; in città circolava più danaro e si
intensificavano i commerci.
Lo
studio napoletano, prima università statale, fu fondata nel 1224,
con l’intento di contrapporre alla guelfa filopapale Bologna un
centro di cultura ghibellina filoimperiale e di porre un freno allo
strapotere delle comunità religiose napoletane giunto troppo in
alto in età ducale.
Federico
scelse Napoli per aprire l’università anche perché
geograficamente la città era la più idonea ad attrarre studenti
del Centro e Nord d’Italia, e per la sua maggiore capacità
ricettiva. Tuttavia l’università attrasse moltissimi abitanti del
regno ma pochi forestieri, perché i suoi statuti erano più severi
e lasciavano meno libertà di quelli bolognesi.
I
vantaggi che Federico concesse ai napoletani non li ricompensarono
dell’abolizione dei privilegi di Tancredi e dell’imposizione di
una rigida amministrazione finanziaria: monopoli, dazi e diritti
governativi, assieme all’ostilità fomentata dal clero tenuto a
bada, alimentata dai papi che volevano estendere la loro supremazia
su tutta l’Italia meridionale, resero la città tenacemente
avversa alla dinastia sveva.
Alla
morte di Federico II (1250) Napoli si oppose all’erede Corrado IV
e si
eresse
a comune autonomo.
Fra
le cause dell’avversità c’era pure l’abbattimento voluto da
Corrado IV delle famose mura già ricostruite dal padre Federico II,
ma in sostanza c’era il fatto che sotto gli Svevi Napoli, pur
avendo ottenuto alcuni alcuni privilegi, aveva perso l’illusione
di essere una città particolare e favorita dai sovrani, per
diventare una qualunque parte del regno.
Alcuni
ritengono, ma più che altro richiamandosi a stereotipi maturati
secoli dopo, che i napoletani “non si trovavano bene” con gli
Svevi perché si comportavano da “nordici”, anche se per la
verità realmente essi mostravano un volto truce che male si
conciliava con la mentalità e le abitudini della città. Se
possiamo concederci una digressione storica, forse si può cogliere
in maniera piuttosto approssimata qualche analogia con gli eventi,
sette secoli dopo, dell’occupazione nazista del 1943 sfociata
nelle Quattro Giornate.
Corrado
IV prese Napoli, dopo quattro mesi di tenace resistenza, per fame e
malattie nell’ottobre del 1253, ma non infierì sulla città.
Dopo
Federico II il perfetto organismo dello stato svevo si disgregò.
Corrado IV, occupato in Germania a farsi riconoscere imperatore,
sopravvisse al padre solo quattro anni. Rimase unico erede di casa
sveva Corradino, un bimbo di due anni.
Assunse
allora la reggenza un altro figlio di Federico, Manfredi, un figlio
illegittimo, che si mise a capeggiare i ghibellini antipapali
dell’Italia settentrionale, cosa che gli procurò l’ostilità
del papa, il quale, eccependo che secondo l’accordo di Melfi del
1050 con Roberto il Guiscardo, il Regno di Sicilia era un feudo
vassallo del papa, spettava al papa nominare un altro vassallo.
Nel
braccio di ferro il papa scagliò contro Manfredi Carlo d’Angiò.
Aiutato
dai Guelfi dell’Alta Italia, Carlo scese in Italia per prendere
possesso del regno avuto dal Papa.
Liquidò
gli Svevi in una sola battaglia, il 26 febbraio
1266 a
Benevento.
L’anno
dopo gli Svevi scesero in Italia per riprendersi il regno, guidati
dal quindicenne Corradino che non ebbe migliore fortuna.
Sconfitto
a Tagliacozzo, in Abruzzo, riparò in una località fra Nettuno e
Terracina, dove fu tradito in modo infame da
un notabile ghibellino, Giovanni Frangipane, che lo consegnò
a Carlo d’Angiò.
Il
29 ottobre 1268 Corradino fu decapitato nella piazza del Mercato a
Napoli.
Fu
sepolto dietro altare maggiore della chiesa del Carmine.
Nel
1646 quando il cardinale Filomarino fece abbassare pavimento della
chiesa vennero alla luce i suoi resti contenuti in casse di piombo.
Due secoli dopo, nel 1847, l’ultimo degli Hohenstaufen, il
principe Massimiliano di Baviera, fece costruire l’attuale tomba,
per tumularvi i resti, nel basamento.
Napoli,
che come abbiamo già detto, non amava molto gli Svevi, accolse con
entusiasmo, come sua consuetudine, i nuovi dominatori di turno: gli
Angioini.
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