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I
MISTERI DI NAPOLI
Le
invenzioni di Raimondo di Sangro
I
lettori ci consentiranno ancora una puntata che riguardi il Principe
di Sansevero, non per soffermarci sulle intense vicende da lui
vissute con alterna fortuna – già sufficientemente esposte –
bensì per andare a quelle tracce salienti da lui lasciate ai
posteri come opere documentali di una concezione di vita tipica di
una famiglia aristocratica predominante della Napoli di tre secoli
fa.
A
parte le sculture e le decorazioni artistiche commissionate e
prodotte per
la Cappella
gentilizia, vi sono le ben note “invenzioni” – più volte
citate nel ricordo degli storici – che costituiscono un tema
piuttosto controverso, in quanto di esse una soltanto è certa,
quella delle Macchine anatomiche,
perché si concretizza in un manufatto arrivato fino a noi. Altre
invece sono probabili perché possono ritenersi applicate nella
realizzazione di opere e congegni vari esistenti o esistiti, altre
ancora non hanno alcun riscontro accettabile non essendoci né
l’oggetto della loro applicazione, né una documentazione storica
che ne attesti l’autenticità. Delle molte invenzioni che fecero
guadagnare a Raimondo di Sangro la nomea di “scienziato”
dobbiamo distinguere, inoltre, quelle attribuitegli da altri da
quelle che si è attribuito lui stesso, dandone notizia nella sua Lettera
Apologetica.

Le
Macchine anatomiche,
attualmente sistemate dov’era il suo laboratorio segreto, nella
cavea sotterranea della Cappella gentilizia, costituiscono un
inimitabile prodotto di sintesi tra creazione artistica, studio del
corpo umano ed applicazione tecnologica. Siamo di fronte a due
modelli anatomici di grandezza naturale, conservati in due teche di
vetro alte circa due metri, costituiti da scheletri autentici di una
donna e di un uomo, con le ossa interamente rivestite da un
fittissimo sistema arterioso e venoso che, metallizzandosi, ha
preservato nei secoli anche gli organi più importanti interni, fino
a rivelarne quasi intatta la visione dei vasi sanguigni. Lo
scheletro della donna – braccio destro alzato, espressione di
terrore nei globuli oculari interi ancora lucenti, sensazione di
invocazione di aiuto – mostra una stato di gravidanza. Nel ventre,
dalla placenta squarciata fuoriesce l'intestino ombelicale che va a
congiungersi con il feto avente il cranio aperto. Lo scheletro
dell'uomo ha più o meno le stesse caratteristiche, ma le braccia
gli scendono lungo il tronco.
Nelle
note del Principe si legge che nella Cappella «si
veggono due Macchine Anatomiche, o, per meglio dire, due scheletri
d'un maschio, e d'una femmina, nè quali si osservano tutte le vene,
e tutte le arterie dè Corpi umani, fatte per injezione, che, per
essere tutt'intieri, e, per la diligenza, con cui sono stati
lavorati, si possono dire singolari in Europa».
La
realizzazione dell’intero insieme –
lo attesta un contratto ancora oggi conservato all'archivio
notarile di Napoli –
sarebbe stata affidata ad un medico, l’anatomista palermitano
Giuseppe Salerno, mentre la rete simulatrice del sistema
venoso–arterioso sarebbe stata ottenuta da Raimondo di
Sangro con fil di ferro e cera colorata,
secondo un metodo ed un composto di sua invenzione,
nell’encomiabile intento di fornire un valido modello didattico ai
poco esperti sanitari dell’epoca. Di un’opera tanto vera e
concreta resta la sola incertezza di come sia stato possibile
“metallizzare” il circuito sanguigno irrorando un apposito
liquido nei capillari avvolgenti gli scheletri.
Ma dove la ragione non sa spiegarsi le cose arriva in soccorso la
fantasia. L’ennesima leggenda vuole
che l’esperimento sia stato eseguito sui due malcapitati fornitori
dei loro corpi quand’erano ancora vivi, poiché – non essendoci
ancora all’epoca la siringa ipodermica, inventata quasi un secolo
dopo dal chirurgo Carlo Gabriele Pravaz di Lione – l’unica
“pompa” in grado di spingere il liquido fin nei condotti venosi
ed arteriosi più sottili era il cuore in attività. Iniettando
nelle vene delle due povere cavie una sostanza che, entrando in
circolo, bloccasse progressivamente la rete sanguigna, se ne sarebbe
ottenuta la “metallizzazione” e quindi, inevitabilmente, la
morte dei soggetti. Le pose dei due corpi indurrebbero a confermare
drammaticamente una simile atroce ipotesi, facendo ritenere che
siano stati legati mani e piedi ad una specie di tavolo operatorio e
che solo la donna, prima di morire, sia riuscita a liberare il
braccio destro, agitandolo e cercando scampo fino a quando la sua
circolazione sanguigna non si sia bloccata.
Nessuna
seria indagine scientifica è stata finora possibile in tal senso
per la ferma opposizione degli attuali proprietari della Cappella.

Un’altra
invenzione – della quale non vi sono prove dirette, ma che
troverebbe conferma proprio nella Cappella – è quella dei marmi
alchemici,
frutto dell’intensa ricerca del Principe nel realizzare
parecchie sostanze chimiche tra cui stucchi, mastici madreperlacei
per costruire cornicioni e capitelli, un tipo di marmo sintetico
che, versato fuso ed appositamente canalizzato, avrebbe formato un
“cordone” bianco ininterrotto, decorativo del pavimento (ancora
oggi parzialmente visibile). Il procedimento avrebbe reso possibile
la marmorizzazione dei tessuti, quindi l’effetto di trasparenza
nel blocco marmoreo raffigurante il corpo coperto da un velo della
scultura del “Cristo Velato”, la statua che ha dato celebrità
allo scultore Giuseppe Sanmartino (Napoli, 1720 – Napoli, 1793)
e che introdusse fra i suoi estimatori Antonio Canova, che tentò di
acquistare l'opera, dichiarandosi disposto a dare dieci anni della
propria vita pur di essere l'autore di un simile capolavoro. Un
riconoscimento più che meritato dopo una lunga e feconda carriera
fatta di opere come il gruppo con Sant'Agostino che calpesta
l'eresia in
Sant'Agostino alla Zecca, la decorazione della chiesa
dell'Annunziata (sotto la direzione di Luigi
Vanvitelli), l'altare della Chiesa
della Nunziatella, e, su disegno di Ferdinando
Fuga, il monumento a Filippo,
primo figlio di Carlo
di Borbone, nella Basilica
di Santa Chiara, gli angeli e le teste alate, in marmo, della chiesa
di San Lorenzo delle Benedettine a San
Severo, in Puglia,
le creazioni presepiali esposte nel Museo
di San Martino.
Tornando
alle invenzioni del Principe, nella sua Lettera Apologetica
ha raccontato che nel
1729, a
soli 19 anni, per una
rappresentazione teatrale nel cortile del collegio gesuitico romano
in cui studiava, avrebbe
costruito un palco pieghevole, di aspetto apparentemente
normale, che, però, per un sistema di ruote, argani e funi,
sarebbe stato possibile sollevare e chiudere “a libro”,
permettendo in pochissimo tempo di liberare l’area occupata per
adibirla ad un carosello di cavalleria.
Nei rispettivi settori
militare, degli approvvigionamenti e dei trasporti avrebbe ideato:
un cannoncino da
campagna in un metallo leggero sostitutivo del consueto ma
gravoso bronzo; un archibugio,
fucile a retrocarica, a canna unica, che sparava a polvere o
“a vento”, cioè ad aria compressa; una macchina idraulica
che trasportava acqua a qualunque altezza; una carrozza
marittima, ben evidente in una stampa d'epoca ancora esistente, simile ad
una carrozza terrestre, ma con cavalli in sughero o legno ed, al
posto delle ruote, le “pale”, azionate da personale nascosto,
per navigare, ospitando fino a dodici persone, più veloce delle
barche a remi ed a vela dell'epoca.

Altri risultati della sua
ricerca – abbastanza probabili – avrebbe ottenuto nella grafica
con: una stampa simultanea a più colori,
cioè ad una sola “passata di torchio” cbe avrebbe
personalmente impiegato nella sua tipografia sita nei sotterranei
del Palazzo; un metodo di epigrafia al negativo applicato
alle lapidi, con scritte a rilievo anziché scolpite,
ottenute ricoprendole con una pasta a base di paraffina che le
avrebbe protette dal bagno d'acido conclusivo.
Più fantasiose e quindi
meno attendibili risultano essere invece: un procedimento per
bruciare molto lentamente e consumare pochissima materia, detto
lume eterno –
descritto in alcune lettere di Raimondo a studiosi dell'epoca
– consistente nella
creazione di una mistura di frammenti prodotti dalla
triturazione delle ossa di un teschio, probabile miscela di fosfato
di calcio e fosforo ad alta concentrazione; un analogo procedimento
per bruciare senza produrre cenere, detto carbone alchemico,
consistente nella creazione di altra mistura di sostanze di
origine animale e vegetale; un processo di impermeabilizzazione
dei tessuti, che
avrebbe consentito a Raimondo di donare al re Carlo III,
grande appassionato di caccia, un mantello sottoposto a tale
trattamento; un procedimento innovativo per ottenere Gemme
artificiali, partendo
da normali pietre in marmo bianco e colorandole sì da non
poterle distinguere dalle gemme vere; la plasticizzazione a freddo
di metalli, la pietrificazione di materie molli, nuovi processi di
colorazione di marmi e vetri.

Ancora
più difficili da accettare sarebbero i successi riportati in
medicina, pur tenendo in conto delle limitate conoscenze
scientifiche degli esperti di quel momento. Avrebbe curato
un paziente affetto da un «morbo
invero raro e sconosciuto ai medici» somministrandogli «estratto di pervinca più fiate bullito». La cura fece dapprima
perdere i capelli all'ammalato, che però non guarì e giunse
comunque alla morte. Dall'autopsia, cui il Principe partecipò e di
cui ci ha lasciato traccia, è stato possibile appurare che si
trattava di un tumore allo stomaco. Ciò che però colpisce è che
le cure oncologiche oggi praticate prevedono la somministrazione di
sostanze che contengono estratto di “vinca rosea”, come attestato da specialisti moderni come il prof.
Tarro, che hanno confermato che la cura proposta dal Sansevero circa
400 anni fa non era poi del tutto errata.
Il
Principe sarebbe infine riuscito
a produrre una sostanza in grado di comportarsi esattamente come
quella che – ritenuta essere il sangue di san Gennaro – si
liquefa in date ben precise, originando prodigi.
Si è parlato anche di: un
Sistema per dissalare e potabilizzare l'acqua di mare; una Carta
ignifuga, di
lana da una parte e di seta dall'altra, con la proprietà di non
prendere fuoco; fuochi d'artificio di colore verde.
In conclusione, pur
volendo ritenere prevalente – nel bene e nel male – l’alone
della leggenda, è fuor di dubbio che Raimondo di Santo, Principe di
Sansevero è stato un aristocratico napoletano dotato di elevato
ingegno
e di fertile creatività oltre che un grande, memorabile mecenate.
Napoli,
27 giugno 2012
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